La Psicologia della HCI

Antonella De Angeli e Walter Gerbino

Dipartimento di Psicologia

Università degli Studi di Trieste

Via dell'Università 7, I-34123 Trieste

deangeli | gerbino | @univ.trieste.it

Sommario

Questo lavoro presenta alcune riflessioni sul contributo della psicologia alla progettazione di sistemi informatici. Attraverso la ricostruzione storica del ruolo delle scienze umane nella HCI, si vuole dimostrare la necessità dello sviluppo di una specifica psicologia della HCI, una disciplina di confine in cui confluisca parte dell'apparato teorico e metodologico della psicologia cognitiva, sociale e applicata. L'attuale stadio tecnologico che si concentra sullo sviluppo di sistemi intelligenti e flessibili presuppone infatti conoscenze psicologiche evolute che richiedono di superare le tradizionali barriere fra le varie aree di studio del comportamento umano.
  1. HCI: Una disciplina dinamica

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    La prima sensazione di un ricercatore che si avvicina al settore della Human-Computer Interaction (HCI) è probabilmente un misto di stupore e smarrimento. La piacevole sorpresa deriva dalla straordinaria quantità di materiale bibliografico, congressi e siti internet attualmente disponibili su un'area di ricerca così giovane. Il piacere della scoperta di tanta vitalità scientifica è però presto affiancato dalla difficoltà di selezione e fruizione del materiale. Il settore è infatti caratterizzato da un profondo disordine, prezzo forse inevitabile di una tanto rapida evoluzione. Una delle maggiori sorgenti di confusione deriva da una generalizzata instabilità terminologica che riflette ed esaspera il mancato accordo sulla definizione di oggetto e metodologie di studio. Pur ammettendo che questo quadro possa essere considerato normale nei momenti di fondazione di nuove discipline, all'interno della HCI risulta esasperato. Ciò è principalmente dovuto alla natura dinamica della disciplina. La HCI nasce dal progresso informatico al preciso scopo di fornirgli linfa vitale. In questo loop ogni potenziamento della componente tecnologica implica necessariamente un allargamento dell'oggetto di studio. Si pensi, ad esempio, all'avvento della tecnologia delle reti, che ha esteso il dominio di studio dall'analisi dell'interazione fra un computer e un utente, all'analisi dell'interazione fra più computer e più utenti [8].

    Negli anni, l'oggetto di analisi della HCI si è andato modificando lungo il continuum vincolato-flessibile [9]. Ogni generazione di computer è caratterizzata da una maggiore flessibilità interattiva rispetto a quella precedente. Il dialogo altamente vincolato è la tipica forma di interazione fra utenti e macchine. Lo scambio è rigidamente determinato dalle capacità interattive del partner più debole: si svolge sulla base di un numero limitato di azioni che richiedono la conoscenza di specifiche sintassi e sono caratterizzate da procedure ripetitive. I gradi di libertà dell'utente sono ridotti a zero; o conosce esattamente sintassi e procedure, oppure è destinato all'errore. Prototipo di dialogo flessibile è invece la comunicazione fra umani: lo scambio è caratterizzato dalla libertà e dalla creatività del linguaggio naturale. L'interazione con un sistema a dialogo vincolato rappresenta un tipico atto strumentale il cui andamento è funzione della compatibilità fra strategie di soluzione della macchina, capacità cognitive dell'utente e difficoltà del compito. Nel caso dei sistemi flessibili, invece, l'interazione è funzione di molte più variabili, legate anche alle caratteristiche individuali dell'utente e al contesto interattivo. L'evoluzione tecnologica si riflette direttamente sul tipo di capacità e conoscenze richieste all'utente: il dialogo vincolato implica quasi esclusivamente il coinvolgimento di abilità cognitive elementari; quello flessibile anche di abilità cognitive superiori, sociali e comunicative. La flessibilità rende l'interazione più semplice per l'utente, ma allo stesso tempo più complessa ai fini dell'analisi. Un'interazione vincolata è facilmente rappresentabile, mentre la formalizzazione del dialogo flessibile è molto complicata, se non impossibile. Lo studio dei sistemi flessibili necessita dunque un approccio e una metodologia più complessa di quella sufficiente per l'analisi dei sistemi vincolati.

    Il nostro lavoro presenta alcune riflessioni sul contributo che la psicologia può fornire alla progettazione di sistemi informatici. A questo fine viene proposto un tentativo di ricostruzione storica che descrive i cambiamenti di tale contributo in funzione dello sviluppo tecnologico. Questo è un compito insidioso. Infatti, la HCI è caratterizzata da una storia complessa e confusa, che varia a seconda della prospettiva da cui viene descritta e dei diversi ambienti in cui si è sviluppata [15]. Una descrizione temporale è dunque possibile solo nella piena consapevolezza di operare una fondamentale trasformazione sul fenomeno stesso, sovrapponendogli una linearità che il passato non ha avuto. Nonostante tale inevitabile riduzione, siamo convinti che questo percorso aiuti a comprendere in che modo la psicologia debba contribuire allo sviluppo della HCI.
     
     

    1. HCI: scienza di progettazione
    Prima di procedere nel nostro percorso, è necessario definire chiaramente cosa si intende con l'acronimo HCI. Trovare in letteratura una definizione unanimemente accettata è difficile [19]. Tale carenza deriva dal preponderante orientamento applicativo dei lavori, che ha scoraggiato la riflessione teorica a favore della produzione di risultati utilizzabili nel ciclo di progettazione. Quando fornite, le definizioni tendono a essere parziali; si soffermano su alcuni aspetti dell'unità di analisi e di conseguenza ne sottovalutano la complessa natura interdisciplinare. Il problema è che sotto l'etichetta HCI si possono identificare lavori e ricerche estremamente eterogenei, quali: sviluppo di software e hardware interattivi, analisi di processi cognitivi e modelli mentali, studi di problem-solving, analisi del compito, sviluppo di teorie e strumenti di progettazione, analisi socio-economiche relative all'impatto della tecnologia sulle organizzazioni [3].

    Una soluzione efficace per riassumere aspetti tanto diversi è definire la HCI come scienza di progettazione di nuovi dispositivi basati sulla tecnologia informatica [5]. L'obiettivo principale della disciplina è il miglioramento del sistema utente-computer tramite: (a) comprensione dei fattori psicologici, ergonomici, organizzazionali e sociali sottostanti il comportamento dell'utente; (b) sviluppo di strumenti e tecniche che permettano di applicare tali conoscenze alla progettazione; (c) realizzazione di nuovi sistemi più adeguati alle caratteristiche dell'utente. In questa visione la HCI è necessariamente figlia di un processo di interazione e collaborazione fra settori di studio diversi, il cui numero tende a crescere parallelamente allo sviluppo della disciplina stessa [16, 19]. Spesso, però, la tanto acclamata interdisciplinarietà si risolve in una questione di facciata. Al di là delle barriere istituzionali, il problema fondamentale è legato alla condivisione delle conoscenze. Le discipline che formano la HCI possiedono tutte apparati concettuali e metodologici chiaramente sviluppati che spesso ostacolano la fertilizzazione incrociata. Attualmente, è chiaro che uno scambio proficuo richiede un processo di mutuo accomodamento fra le varie discipline e non l'imposizione di un unico stile ingegneristico, come nel passato era stato proposto [4].
     
     

  3. Il contributo della psicologia

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    Il ruolo privilegiato che la psicologia dovrebbe giocare nella human-computer interaction è immediatamente sottolineato dal nome stesso della disciplina. Sfortunatamente però l'importanza nominale non si riflette a pieno nella realtà, dove il contributo psicologico, per quanto in sempre maggior espansione, è tuttora subordinato al ruolo delle scienze tecniche e frequentemente giudicato insoddisfacente [11, 12, 16, 18]. Teoricamente, esistono vari modi in cui la psicologia può contribuire alla progettazione di sistemi informatici. Innanzi tutto, può fornire specifiche conoscenze teoriche sull'utente. Da questo punto di vista, é stata ampliamente sfruttata la psicologia dei processi cognitivi e più recentemente la psicologia sociale. La prima può spiegare il funzionamento delle capacità mentali degli utenti; la seconda aspetti diversi del processo interattivo. Il semplice trapianto teorico si è comunque spesso rivelato insoddisfacente. Teorie e modelli della psicologia cognitiva tendono a risultare inadeguati, perché si riferiscono a funzioni isolate e astratte dal contesto di azione [12]. Il trapianto teorico della psicologia sociale appare ancora più problematico. Tale disciplina, infatti, riguarda lo studio del modo in cui gli individui attribuiscono un significato ed entrano in relazione con quei particolari oggetti della realtà che sono gli altri. La sostituzione di uno o più partner con dei computer implica inevitabilmente delle differenze di entità tale da precludere la generalizzabilità delle conoscenze. Dal punto di vista teorico, i contributi più interessanti per la HCI possono venire dall'approccio ecologico [10], nel cui ambito sono stati sviluppati concetti fondamentali per lo studio dei sistemi complessi che coinvolgono il ciclo percezione-azione. Va comunque osservato che l'integrazione teorica del punto di vista gibsoniano nell'ambito della psicologia cognitiva non è stata priva di difficoltà.

    Oltre al vasto apparato teorico, la psicologia può fornire un complesso apparato metodologico per l'analisi e lo studio del comportamento umano. Tuttavia, anche il semplice trapianto metodologico implica notevoli difficoltà. Infatti, l'aspetto più robusto della metodologia psicologica riguarda esperimenti di laboratorio, mentre l'attuale stadio di sviluppo della HCI richiede paradigmi esplorativi meno rigidi, quali ricerche sul campo o studi correlazionali. In particolare, l'applicazione delle tecniche statistiche richiede profondi ripensamenti. Nel dominio in esame è più importante evidenziare tendenze e definire la forza degli effetti, piuttosto che elencare livelli di probabilità [12]. In generale, per permettere la diffusione dei risultati, il settore metodologico richiede alla psicologia il maggiore sforzo di adattamento linguistico. Questo aspetto è stato fino ad ora prevalentemente ignorato, generando da un lato lavori di ineccepibile qualità rimasti praticamente inutilizzati, dall'altro un generale disinteresse verso la metodologia di ricerca.

    Affermare che la psicologia non è sempre stata in grado di contribuire direttamente alla HCI non vuol dire negare la sua importanza nel settore. Al contrario, quest'idea sottintende la necessità dello sviluppo di una specifica psicologia della HCI, settore finalizzato a produrre un apparato teorico e metodologico più consono al dominio in analisi. A questo fine è necessario superare le tradizionali barriere fra le varie aree di studio del comportamento umano, dando luogo a una psicologia di confine in cui confluisca parte dell'apparato teorico e metodologico della psicologia dei processi cognitivi, dell'ergonomia nonché della psicologia sociale [9]. Sicuramente questo è un obiettivo molto ambizioso e problematico, ma come si cercherà di dimostrare, sembra essere la soluzione più adatta per comprendere l'interazione fra gli esseri umani e i più avanzati sistemi informatici.
     
     

    1. Evoluzione storica
    Per anni, l'obiettivo principale della psicologia nella HCI è stato la comprensione delle capacità cognitive sottostanti l'interazione. Il cognitivismo deve tale predominio al parallelismo fra il suo modo di concepire l'essere umano e la struttura del computer. Proprio tale similitudine ha inizialmente facilitato l'incontro e lo scambio fra informatici e psicologi. Secondo l'approccio cognitivista l'interazione può essere schematicamente riassunta in un ciclo di elaborazione dell'informazione composto da due unità, l'essere umano e il computer, che pur essendo strutturalmente differenti possono essere rappresentate in modo simile (Figura 1).
     


    Figura 1. Interazione utente-computer secondo l'approccio cognitivista. L'output di un'unità rappresenta l'input per l'altra e l'interazione si sviluppa attraverso continui cicli di elaborazione

    Il primo contributo programmatico della psicologia alla HCI deriva dalle ricerche iniziate nel 1974 da un gruppo di ricercatori dello XEROX PARC [4, 16, 17]. Attraverso l'esecuzione di un'impressionante quantità di studi sperimentali, tali ricercatori giunsero a due risultati fondamentali: il modello dell'elaboratore umano, che rappresenta un mirabile, seppur limitato, esempio di adeguamento di teorie cognitiviste al dominio della HCI; una famiglia di modelli di analisi del compito indicati dall'acronimo GOMS (Goals, Operators, Methods, Selection rules). In questa visione, l'utente è rappresentato come un puro agente cognitivo, il cui comportamento ideale può essere modellato sulla base di conoscenze a-prioristiche. La formalizzazione viene eseguita tramite GOMS e si sviluppa mediante esplicite operazioni matematiche, le cui costanti derivano dal modello dell'elaboratore umano. Per permettere formalizzazioni accurate il dominio della psicologia è ridotto alle azioni caratterizzate da un tempo di esecuzione compreso fra il decimo di secondo e il minuto. In tale fascia si trovano processi simbolici e meccanismi mentali. Le attività più lunghe, guidate da obiettivi e scopi, sono dominio della razionalità limitata e quindi non rientrano nei modelli predittivi. Tale proposta riduzionistica è caratterizzata da un deciso stile ingegneristico: la psicologia deve fornire previsioni comportamentali partendo da dettagliate descrizioni simboliche del compito. E' chiaro che questo approccio è limitato all'analisi di interazioni altamente vincolate, in cui siano coinvolti solo processi cognitivi elementari.

    L'importanza del cognitivismo riduzionistico è chiaramente testimoniata dalle numerose ricerche che ad esso si ispirano, ma anche dal numero di critiche che fin dai suoi albori ha generato. Le più severe nacquero in seno alla stessa corrente cognitivista. Ne è un segno la polemica che contrappose i sostenitori della psicologia ingegneristica [16, 17] a Carroll e Campbell [7]. La trasformazione della psicologia in scienza ingegneristica viene criticata non solo per l'inadeguatezza del dominio in cui è relegata, ma anche per l'inadeguatezza della metodologia su cui si basa. All'idea di un radicale cambiamento della psicologia viene contrapposta l'esigenza di una piena interdisciplinarietà. Ciò implica una ridefinizione degli scopi della psicologia [13]. Dalla definizione di teorie generali sul funzionamento cognitivo dell'essere umano, si passa alla ricerca di metodologie sperimentali per studiare come i sistemi informatici vengono effettivamente utilizzati. Principali cause di tale cambiamento sono il progresso tecnologico e la crescente diffusione dei computer.

    A partire dalla seconda metà degli anni '80, l'obiettivo principale della HCI diventa l'incremento di usabilità. La psicologia si concentra quindi sullo studio dell'errore umano, considerato come un evento naturale nel comportamento di interazione [14]. L'incompatibilità fra psicologia ingegneristica e analisi dell'errore è evidente, sia per il dominio in cui gli errori si presentano (azioni finalizzate a uno scopo), sia per l'inadeguatezza dell'apparato metodologico, appropriato solo per descrivere prestazioni perfette. L'estensione del dominio psicologico ha come conseguenza un crescente interesse verso il compito e verso l'analisi delle modalità di rappresentazione e trasmissione della conoscenza, modelli mentali e metafore [6]. L'utente diviene quindi un agente cognitivo complesso, un risolutore di problemi.

    Negli ultimi anni, si vanno alternanando diversi tentativi di ripensamento interni alla corrente cognitivista e posizioni di rifiuto radicale di tale approccio. I primi propongono essenzialmente una riduzione dell'approccio costruttivista e mentalista, nonché una maggiore attenzione al contesto di azione [12, 13]. Secondo Bannon [1], ciò implica un chiaro mutamento della definizione di utente da fattore umano (tradizionalmente inteso come agente passivo e spersonalizzato), ad attore umano (individuo attivo, capace di controllo e scelta). Contemporaneamente si vanno affermando paradigmi di ricerca alternativi, quali la teoria dell'attività [2]. In generale, comunque, si assiste a uno spostamento di interesse dallo studio dei processi cognitivi dell'utente allo studio del processo interattivo utente-computer [13, 19].

    Le tecnologie maggiormente responsabili di questa trasformazione sono i sistemi di riconoscimento del linguaggio naturale e in maniera ancora più decisiva i sistemi multimodali. Il progressivo adattamento del computer all'utente riduce le differenze fra le due entità e quindi trasforma l'elaboratore in qualcosa di diverso da una macchina, in un'entità più compatibile all'essere umano. Ciò tende ad estremizzare la concezione antropomorfica che ha caratterizzato il computer fin dai suoi albori. Nel momento in cui il linguaggio diventa il canale principale dell'interazione vengono attivate una serie di dinamiche sociali che guidano il suo utilizzo nella normale situazione d'uso: la conversazione fra umani [20]. Il computer diventa così "oggetto evocativo" [21] e genera sentimenti, sensazioni, pensieri legati alla natura umana. La rappresentazione mentale, che un utente occasionale si forma dell'interlocutore meccanico, tende ad assomigliare più alla percezione di personalità di un partner che alla percezione fisica di uno strumento artificiale. Le capacità linguistiche dell'artefatto tendono a generare l'attribuzione di caratteristiche umanoidi: di conseguenza, l'interazione è mediata dagli stereotipi categoriali dell'utente ed è regolata dalle norme sociali tipiche della comunicazione fra umani [20]. In questo contesto, l'utente diventa un comunicatore; non solo un agente cognitivo complesso, ma un anche un attore sociale.

    Il progressivo aumento delle capacità dialogiche del computer ha attivato una trasformazione radicale. Il comportamento interattivo diventa funzione del modo in cui l'utente si rappresenta il sistema, il compito e l'ambiente in cui l'interazione ha luogo. La risposta all'output di un sistema non è un puro atto cognitivo, ma il risultato del significato che l'utente attribuisce al dato output. Quanto più un sistema viene concepito in senso antropomorfico, tanto più l'attribuzione sarà mediata da schemi, processi inferenziali e stereotipi sociali. Per quanto le conoscenze sugli effetti indotti dall'antropomorfismo siano molto scarse, i primi risultati empirici evidenziano reazioni psicologiche negative verso l'esasperazione di caratteristiche naturali nei computer. L'usabilità sembra dunque vincolata anche alle emozioni indotte sull'utente e al suo atteggiamento verso la macchina.

    La psicologia della HCI deve cominciare a considerare questi aspetti, progettando esperimenti di simulazione capaci di spiegare il comportamento interattivo con i sistemi di un domani forse non troppo remoto. Tuttavia, il contributo più importante della psicologia alla HCI riguarda un mutamento strategico che secondo Norman [18] deve ancora avere luogo. Cioè l'affermarsi di una vera progettazione centrata sui bisogni dell'utente, che porti alla scomparsa del computer come componente dell'interazione. Il solo fatto che si continui a parlare del computer come di un'entità unitaria rivela l'errore fondamentale all'origine di tante difficoltà nell'uso delle tecnologie informatiche. La progettazione di information appliances richiede di partire dai bisogni umani, per la cui individuazione è fondamentale l'apparato teorico e metodologico della psicologia. L'analisi dei bisogni presuppone conoscenze psicologiche evolute, corrispondenti a modelli dell'utente non banali e aperti allo sviluppo, rispetto alle quali i confini disciplinari interni alla psicologia (che spesso ostacolano la fertilizzazione incrociata tra psicologia cognitiva, psicologia sociale, psicologia dello sviluppo, psicologia dell'istruzione, psicologia applicata) hanno ben poco senso.
     
     
     
     

  5. Riferimenti bibliografici
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  20. Reeves, B. e Nass, C. (1996). The Media Equation: How People Treat Computers, Television, and New Media Like Real People and Places. Cambridge: Cambridge University Press
  21. Turkle, S. (1997). La vita sullo schermo. Milano: Apageo Editore